28 ottobre 2008
Ombre cinesi sul tramonto della civiltà
- Cosa stai facendo? – ha chiesto.
- Sto facendo un sondaggio – ho risposto.
- Come, un sondaggio. Anche tu adesso fai i sondaggi?
- Sì, stavo sondando.
- No, ti prego non dirmi, non dirmi che sondaggio è. Non lo voglio neanche sapere. E soprattutto non chiedermi di partecipare.
- Non te lo chiederò. Che c’è?
- Dovresti farmi un favore. Sto riparando il rubinetto della cucina e non trovo più la cagna. Ce l’hai per caso tu?
- Non ho nessuna cagna. Ho il pappagallo.
- Ce l’hai tu, allora.
- Ti dico che ho il pappagallo, non la cagna.
- Sono la stessa cosa, la cagna, il pappagallo.
- È la prima volta in vita mia che ti sento chiamare il pappagallo cagna.
- E io è la prima volta che ti sento chiamare la cagna pappagallo. Allora, me lo porti?
- La cagna o il pappagallo?
- Quello che ti pare perdio, basta che me lo porti.
Ho lasciato Eugenia con lo scovolino in bocca, ho preso il pappagallo e sono uscito. Ho pensato che potevo fare uno scherzo a mio padre e passare dal negozio di animali, comprare un pappagallo vero, con le penne e tutto, e portargli quello, ma poi m’è passata la voglia e poi non faceva così tanto ridere dopotutto. Comunque secondo me l’utensile assomiglia di più a un pappagallo che a una cagna.
- Non capisco come lo si possa chiamare cagna, assomiglia di più a un pappagallo – ho detto a mio padre quando mi ha aperto la porta.
- Forse quando l’hanno chiamato cagna, i pappagalli non c’erano ancora. Magari la cagna è stata inventata prima che importassero i pappagalli in Europa, tipo nel Medioevo, e l’inventore della cagna non poteva avere il pappagallo come termine di paragone, aveva soltanto i cani, e così l’ha chiamato cagna.
- E perché non l’ha chiamato cane, allora?
- Senti, non lo so. Me lo dài, quel coso, e la facciamo finita?
- Non mi hai convinto per niente e ora ti voglio dimostrare che assomiglia più a un pappagallo che a una cagna.
Ho chiuso tutte le imposte in sala per fare buio e ho puntato la lampada da tavolo contro la parete bianca, e posizionando il pappagallo davanti alla lampada ho mostrato a mio padre con l’infallibile metodo delle ombre cinesi che quella era senza ombra di dubbio (ombre cinesi, ombra di dubbio, ahaha, non so se) un pappagallo, e per togliergli ogni dubbio aprivo e chiudevo l’utensile e intanto facevo il verso del pappagallo. Mio padre invece ha cominciato ad abbaiare, prima piano, e poi sempre più forte, e indicava l’ombra, come per dire: lo vedi che è una cagna? Siamo andati avanti un quarto d’ora lui ad abbaiare e io a pappagallare, poi mio padre è andato in cucina e ha tirato fuori posate e coltelli e utensili da cucina per creare nuove suggestive ombre cinesi, e ci stavamo divertendo un mondo fino a quando io ho preso in mano un altro oggetto e sul muro è comparsa un’ombra rettangolare. Mio padre è ammutolito.
- Che roba è? – ha chiesto dopo un po’.
- Il telecomando – gli ho detto, muovendo il telecomando davanti alla lampada.
Siamo rimasti per un po’ a guardare quel rettangolo nero, minaccioso, sul muro. Nessuno di noi riusciva a dire più niente.
22 ottobre 2008
Rinomina set d'invio
20 ottobre 2008
Spirare inspirando
"So a cosa stai pensando" le ho detto.
17 ottobre 2008
Sapone negli occhi
– Che fai zio – gli ho chiesto.
– Niente – ha detto.
Gli ho raccontato che avevo l’angoscia per via della crisi economica.
– Il fatto è che io ero tranquillo – gli ho detto –, non mi sentivo in pericolo, ma poi leggo gli articoli degli esperti che mi dicono che devo stare tranquillo. Ma io sono già tranquillo. Poi arriva il presidente della Banca Centrale Europea e in tv mi dice che devo stare tranquillo, che non c’è rischio. Ma io sono già tranquillo, perché me lo dici? Poi arriva il presidente del consiglio e alla radio mi dice di stare tranquillo, di non allarmarmi. Io, che sono già tranquillo, comincio a preoccuparmi. Perché cazzo tutti mi stanno dicendo di stare tranquillo? Ho dato forse segni di squilibrio? Ho dato segni di panico? No. Però mi dicono di stare tranquillo, e così mi viene il dubbio che se me lo dicono in realtà ci sono tutti i motivi per non stare tranquillo, stai a vedere che invece mi devo preoccupare se mi dicono di stare tranquillo, non me l’hanno mai detto prima, stai a vedere che invece devo preoccuparmi seriamente. Devo preoccuparmi seriamente zio?
– Ma che cazzo stai dicendo – ha detto zio Piero tirandosi su a sedere –. Stai a sentire. Io non sono un economista. Non me ne intendo. Perciò ascolto quello che dicono gli economisti. Cosa dicono gli economisti? Che ci sono le bolle. Le bolle speculative. Che queste bolle scoppiano. Ogni tanto scoppia una bolla.
Zio Piero si è alzato, ha aperto un cassetto, ha tirato fuori un tubetto per fare le bolle di sapone, l’ha scosso un po’, ha estratto il coperchio con l’anello e ha soffiato. Decine e decine di bolle hanno fluttuato sopra le nostre teste.
– E adesso ti faccio vedere la crisi economica – ha detto, e ha iniziato a far scoppiare le bolle, toccandole con il polpastrello. Uno schizzo di sapone mi è finito nell’occhio.
– Ecco fatto. Che te ne pare? Bolle di sapone. C’avrai mica paura delle bolle di sapone. Al massimo è sapone negli occhi. I cazzi sono altri, nella vita. Non ti preoccupare. Incazzati per le cose serie. Vai ai cortei. Manifesta. Sorridi alle persone. Fatti una bella scopata. Pianta un albero. Eccetera.
Dopo un po’ zia Scimunetta è entrata nello studio, attirata dalle nostre risate. Eravamo distesi sul tappeto e facevamo bolle di sapone e poi le guardavamo scendere su di noi e poi le facevamo scoppiare, che risate.
– Cosa state facendo? – ha chiesto la zia.
– Giochiamo alla crisi economica.
8 ottobre 2008
Ascensione, discussione, convinzione
- A che piano, signora?
- Terzo, grazie.
- Terzo piano. Curioso, io abito al quarto.
- E allora?
- Non abitiamo allo stesso piano.
- E cosa c’è di strano? Un sacco di gente non abita allo stesso piano.
- Sì, ma io di solito in ascensore incontro una signora che abita al mio stesso piano. Tutte le volte. E invece oggi ho incontrato lei, è curioso.
- Ma sono io! Sono io, accidenti a te. Sono quella che incontri sempre.
- Come sarebbe. Lei abita al terzo.
- Ma no, stupido, io abito al quarto.
- E allora perché mi ha detto che abita al terzo?
- Perché volevo evitare che si scatenasse la solita discussione.
- Solita discussione? Eccoci al terzo, la saluto.
- No, non vado al terzo, ti ho detto. Salgo al quarto.
- E che ci viene a fare, al quarto?
- Ci abito, cretino.
- Che strano, eppure
- Se lo dici comincio a urlare.
- ...non ci siamo mai incontrati prima d’ora.
- MA SE PRIMA HAI DETTO CHE INCONTRI SEMPRE UNA SIGNORA CHE ABITA AL QUARTOOOOO
- Infatti, mi domando che fine abbia fatto
- Ma sono io. IO.
- Siamo al piano, la saluto.
- Ho le chiavi! Ecco guarda, ora entro nell’appartamento di fronte al tuo.
- Un momento! Ho capito. Adesso torna tutto. Io non abito qui.
- Ma che dici. Tu abiti al quarto piano. Ci siamo incontrati milioni di volte.
- Io abito al quarto piano, ma questo non è il mio condominio. Ora tutto torna. Mi scusi per il disguido, torno in ascensore e me ne vado.
- Aspetta un attimo, non te la cavi così. Permesso, permesso
- A che piano signora?
- ...pianoterra.
- Ah. E questo che piano è?
- Quarto. Ehi, un momento.
- Allora io sono arrivato, la saluto.
- Non ci posso credere, lei è completamente
- Invece bisogna crederci. Bisogna crederci.
2 ottobre 2008
Gioco al massacro
Allora siccome la migliore difesa è l’attacco ho deciso di prenderlo in contropiede e gli ho detto
– Potrebbe essere che quel messaggio fosse un chiaro segnale del suo disagio sentimentale, e comunque sia come mai non c’eri al funerale di n.1?
Lui è rimasto immobile ma le sue orecchie hanno avuto un fremito.
– Ma io c’ero – ha detto.
– Non ti ho visto – ho detto io.
– Neanche io ti ho visto – ha detto lui.
Stava bluffando? O c’era andato veramente? Forse dovevo cambiare tattica.
– Anzi. Ora che ci penso. Ti ho visto, al funerale ¬– ho detto.
– Ah – ha detto lui, incerto.
– Solo che non c’eri.
Lui ha riso.
– Come sarebbe?
– Ti ho visto, n.3. E non c’eri.
– Ma se mi hai visto, vuol dire che c’ero.
– Ehi, tu mi hai visto a me?
– No.
– Appunto. Ma io invece ti ho visto. Quindi, se permetti, avrò visto anche se c’eri o no. E tu non c’eri.
– Ma non ha senso – ha detto, dopo lunghi secondi di silenzio.
– Perché, ti sembra che la morte di n.1 abbia senso? Niente ha senso. E tu non c’eri.
Lui si è schiarito la voce. Io ho guardato il suo naso.
– E adesso ci sono? – mi ha chiesto. Che figlio di puttana, ho pensato. Io ho preso aria e poi lentissimamente ho risposto “Nnnnnnn-oooooooooo” e quel no era come un pezzo di tappezzeria che si stacca lentamente dal muro. Ho visto le orecchie di n.3 impallidire.
1 ottobre 2008
Un riconoscimento dovuto
Ci sono molte cose in cui in quanto italiani siamo bravissimi ma non si capisce per quale motivo spesso queste cose le misconosciamo. E oltretutto in molti casi sono cose nelle quali costituiamo l’eccellenza, a livello internazionale, diamo cioè dei punti a tutti. Una di queste è il razzismo. Siamo razzisti di qualità, sopraffini, di alto livello, e però siamo talmente abituati a denigrarci che poi le cose che ci riescono meglio le misconosciamo. Tutti a dire che non siamo razzisti. Ma perché ci nascondiamo dietro a un dito, dico io. Questa ritrosia, questa falsa modestia, questa insicurezza riguardo alle nostre capacità. Addirittura questa paura, quasi, di venire considerati dei razzisti dell’ultima ora. Ma stiamo scherzando. Diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Bruto quel che è di Bruto, e Cassio pensi per sé. Noi abbiamo alle spalle una gloriosa storia di razzismo italiano doc. Noi le cose le facciamo per bene, noi non improvvisiamo niente. E soprattutto non facciamo preferenze, il nostro razzismo è equanime, nei confronti di tutti i diversi, nessuno escluso. Siamo stati colonizzatori razzisti sia contro la Libia, nel 1911 (dove siamo stati i primi a usare i gas asfissianti per ammazzare orde di civili, i primati è giusto che vengano riconosciuti) sia contro l’Etiopia nel 1935. Abbiamo accettato le Leggi Razziali nel 1938 e permesso che 17mila ebrei fossero deportati tra il ’43 e il ’45, e siamo stati razzisti anche tra di noi, negli anni del boom, settentrionali contro meridionali, perché noi siamo capaci anche di autocritica, di guardarci dentro. Insomma la storia è la storia, noi non improvvisiamo niente, ci abbiamo messo secoli a costruirci un razzismo serio, radicato, efficace, ci sono voluti anni di sacrifici e di sudore sulla fronte, crederci fino in fondo, anche quando sembrava che tutto questo lavoro di anni fosse stato spazzato via. Però succede che siamo cattivi promotori di noi stessi, che non ci sentiamo mai all’altezza, che ci scherniamo, e anche schermiamo, e poi finisce che ci facciamo fregare le idee dagli altri, dai tedeschi, dagli austriaci, e noi rimaniamo indietro e sorridiamo, diciamo noi non siamo capaci e invece siamo più capaci di tutti, quand’è che impareremo a credere in noi stessi una buona volta.